“Restiamo così, con gli occhi appesi a quei volo che vanno, vanno…verso il loro destino”

Non ricordo bene quanti anni avessi quando mio padre decise, certo su mio espresso desiderio, di portarmi finalmente a caccia con lui. Sono nato nel marzo del 1950 e così penso di poter datare questo avvenimento sul finire degli anni ‘50, inizio anni ‘60: insomma avrò avuto dieci anni, poco più, poco meno. Ecco diventare evidente un fatto: sto “rincorrendo” i colombacci da oltre sessant’anni. Sto inseguendo certo delle speciali prede, ma sto anche continuando a vivere il santo mese d’ottobre come forse solo noi passionisti della caccia al colombaccio sappiamo fare. Ottobre! Ottobre! Benedetto, maledetto mese che ci calamita, ci fa progettare, ci fa sospirare, esclamare, ci fa vivere emozioni mai uguali.

Nella mia ormai lunga vita di cacciatore di colombacci ho sperimentato varie tecniche di caccia e penso di aver accumulato anche una qual certa esperienza della quale certamente non mi vanto. Questo preambolo a quale fine? Ebbene, confido di aver letto ultimamente sulla home page e sul forum del Club Italiano del Colombaccio alcuni interventi che mi hanno spinto a voler esprimere la mia opinione in merito alla tecnica che prevede lo sparo solo se si riesce nella posa dei migratori. Ed allora parto da lontano, da quando per l’appunto assieme a mio padre trascorrevo appena qualche giornata domenicale attendendo il passo dei colombacci appostato in un modesto valico appenninico. Altro non era possibile fare in quei tempi … Le cose non semplici mi hanno sempre stimolato e sono arrivato alla caccia “di poso” alzando volutamente l’asticella delle difficoltà della mia passione ed individuando in questa tecnica un modo davvero particolare di rapportarmi col selvatico. In buona sostanza avere colombacci letteralmente a portata di mano (non di fucile) e non sparare se “loro” non vanno a posarsi dove voglio io, mi elettrizza e certo crea un particolare atmosfera che purtroppo solo pochi addetti ai lavori possono assaporare. In questa affermazione non va individuata la minima altezzosità, la minima supposizione di superiorità rispetto a chi mette in atto altre tecniche di caccia: sia ben inteso non mi sento superiore a nessuno. Mi piace cacciare a questo modo e non ho niente da ridire nei confronti di chi fa diversamente. Ognuno si diverta come meglio crede. Ecco! Lasciatemi però creare una specie di “scaletta” per meglio identificare, tecnica per tecnica, quali a parere mio (mica sta scritto in qualche vangelo …) siano le più semplici e per contro quali più difficili da attuare.

E parto da quella ormai nebulosa bocchetta, da quel valico, così lontano nel tempo, dove da bambino attendevo i colombacci. Quella della caccia alla passata, vissuta su anonimi o rinomati valichi appenninici non è così semplice come può sembrare. Anch’essa richiede tanta esperienza. Richiede sopratutto una abbondante dose di pazienza e direi anche una notevole carica emotiva atta far sì che il cacciatore di turno sappia attendere i migratori non abbandonando mai la propria posta e continuando a setacciare il cielo davanti ai suoi occhi con infinita meticolosità. Passeranno? Non passeranno? E poi … passeranno a tiro di fucile, oppure si faranno ammirare nel più alto del cielo? Ammetto che non sarei più in grado di posizionarmi in uno dei tanti valichi che mi hanno visto attendere i migratori quando ero giovane, ma devo al contempo confidare che l’alto Appennino, in particolare, sapeva e sa regalare teatri di caccia davvero favolosi. I colori, i profumi, i suoni dell’autunno vissuto in quota mi sono entrati nell’animo e lì restano. Quali abilità richiede questa caccia? E beh … sapere scegliere una “bocchetta” al posto di un’altra,  conseguente al vento spirante, non è da tutti. Occorrerà allora avere esatta conoscenza del territorio e soprattutto avere esperienza in merito alle traiettorie preferite in un caso o nell’altro dai branchi in migrazione. All’atto dello sparo avranno maggiori risultati i bravi colpitori, intendendo per tali non certo coloro i quali si fideranno dei miracoli della balistica, ma al contrario sapranno usare il fucile solo quando i colombacci passeranno alla giusta distanza. Davvero insensato sparare con super fucili e super cartucce quando non esisterà possibilità di raccogliere qualche preda. Ancor peggio … nella maggior parte delle occasioni altro non si farà se non ferire qualche colombaccio, non recuperandolo e certo provocandogli una dolorosa fine.Va bene che in Natura nulla va sprecato, ma volpi e lupi ben sanno come trovare di che cibarsi senza l’aiuto di cacciatori che più che sparatori, in questo caso, mi piace definire “speratori”.

Un’altra tecnica di caccia che ha avuto concreto sviluppo in questi ultimi anni è quella che si attua con aste a sfilo, in grado di posizionare lo zimbello o gli zimbelli a grandi altezze, su alberi possibilmente ricchi di frutti d’edera. In questo caso l’abilità del cacciatore sta innanzi tutto nel saper identificare zone ricche di pastura e non secondariamente nel saper allevare ed addestrare zimbelli che devono categoricamente saper comportarsi nel dovuto modo e questo in particolare quando saranno posizionati a notevoli quote sull’albero prescelto. Questa tecnica la si applica anche nel corso del passo autunnale, ma normalmente è la maturazione dell’edera e pertanto la fine dell’inverno a dare maggior risalto all’abilità di cacciatori dotati di perfetti richiami. Saper addestrare un piccione a filo lungo, o anche a filo mediamente lungo, che sappia mostrarsi in vetta ad una vecchia e contorta quercia richiede certo una buona dose di pazienza, tanta esperienza e  competenza. Ancor maggiore abilità è necessaria per addestrare ed utilizzare volantini che andranno sistemati in apposite “bacchettiere” anche queste posizionate a notevoli altezze. Insomma, tanto di cappello a chi sa esercitare nei dovuti modi questa intrigante tecnica di caccia. Importante in queste cacce “nomadi” sarà il fatto di saper rispettare chi caccia in appostamento fisso. A questo mondo “c’è posto per tutti”; fondamentale, ancora una volta sarà il dovuto reciproco rispetto tra appassionati della stessa preda.

La caccia tradizionale al colombaccio con l’utilizzo di richiami vivi (volantini e zimbelli) esercitata da palco con tiro al volo è certamente quella che può contare sul maggior numero di praticanti. La mia Romagna, tornando a ritroso nel tempo, quando anche io “imberbe” iniziai a “spaventare” colombacci dalla vetta di una quercia, poteva contare su di un numero di praticanti compresi tranquillamente nelle dita delle mani. Ora? Ora … non voglio segnalare che in ogni poggiolo, in ogni bosco appenninico, in ogni valico ci siano appostamenti … ma poco manca alla veridicità di questa affermazione. Sta di fatto che la pressione venatoria sul colombaccio, sfruttando richiami vivi e appostamenti realizzati su alberi, è davvero divenuta notevole. Questa tecnica di caccia richiede grande impegno: occorre sapersi inventare abili allevatori-addestratori di piccioni, occorre saper inventarsi sapienti giardinieri e apportare le dovute potature al proprio impianto di caccia, occorre saper risolvere i tanti problemi che un appostamento del genere pone al cacciatore di turno sapendo individuare soluzioni valide e durature. Occorre soprattutto, ai fini del carniere, saper cacciare …  Arte questa di non semplice apprendimento. Lo affermo in prima persona, perché come ho premesso all’inizio della mia avventura in vetta ad una quercia era certo maggiore il numero di colombacci che spaventavo utilizzando maldestramente i miei richiami, rispetto a quelli che attiravo a tiro utile di fucile. Poco per volta, con infinita passione, seguendo consigli di persone più esperte riuscii a migliorare i risultati della caccia; guadagnai freddezza d’animo ed iniziai a “ragionar” colombaccio. Devo dettagliare sacrifici ed abilità necessarie per entrare a far parte pieno titolo tra i cacciatori tradizionali che sparano al volo dalla vetta di un albero? Dovrei esprimere un lungo elenco di problematiche, un nota e laboriosa lista di lavori che praticamente impegnano tutto l’anno, ma risparmio questa argomentazione in quanto ben nota agli addetti ai lavori. Di nuovo, ripeto, unico limite che individuo personalmente e che mi fa accettare questo modo di cacciare è il fatto che si debba mettere mano al fucile solo quando si ha certezza di poter raccogliere la preda di turno. Ha senso (in particolare avendo richiami a disposizione) usare lo schioppo quando i colombacci sono fuori portata? Mi risparmio la risposta perché potrebbe essere addirittura offensiva.

Tra le tecniche più nuove, diciamo quanto meno recenti, ci sta anche quella della caccia cosiddetta al campo. In questo caso è dovuta una imprescindibile distinzione tra chi usa richiami vivi e chi invece utilizza unicamente attrazioni-elettriche. Per chi usa richiami vivi si tratta di trasportare dalla cima di un albero alle stoppie, per esempio di granturco, tecniche che si avvalgono dell’utilizzo di volantini e zimbelli. Volantini e zimbelli che “così vicini al terreno” devono necessariamente essere affidabilissimi … non abbandonare per alcun motivo il proprio posatoio o il proprio piattino di riposo per scendere a pasturare al sottostante, vicino, terreno è un “must” di queste situazioni. Certo armare una caccia in vetta ad un bosco, oppure apprestare un “gioco” in una piana che dia la possibilità di disporre i richiami al vento giusto con le minime difficoltà crea un ben determinato distinguo tra i lavori necessari in un caso, oppure nell’altro. Tra le difficoltà che conseguono il posizionamento di un appostamento costruito su di un bosco (con annessa e connessa contingenza orografica dovuta in particolare allo spirare dei venti) e la possibilità di cercare e trovare una zona di pastura in un territorio più o meno pianeggiante dove poter sistemare stampi e tutto il resto in modo che, casomai, i colombacci entrino al gioco come meglio si desidera … è beh … non c’è che dire: troppa è la differenza. Nonostante tutto anche in questo caso esistono problematiche e difficoltà oggettive.

Problematiche e difficoltà oggettive che, a mio parere,( si badi bene a mio parere) scompaiono se si utilizzano richiami elettrici. L’unico errore che si può commettere in questo caso è quello di invertire le polarità delle batterie utili a far funzionare ciò che alcuni frequentatori del forum del Club italiano del Colombaccio definiscono in modo colorito quali “luna park”. Indubbiamente impiantare un “gioco” composto di dieci o più ”giostre” richiede un notevole lavorio, ma in quanto ad abilità (?) credo rimangano solo quelle legate alla capacità di non sparare di primo mattino ai grossi branchi per lasciare che i colombacci tornino in pastura in modo più frazionato. Non me ne vogliano i cosiddetti “giostrai” ma di abilità, oltre a quella di saper ben sparare, a mio parere ne esistono ben poche. Su questo tema aggiungo che nella vicina Francia tutti i tipi di meccanismi elettrici sono stati da tempo vietati. Indubbiamente nelle cacce al campo, come in quelle all’edera, la buona riuscita della giornata venatoria molto dipende dai preventivi rilievi che normalmente vengono effettuati nei giorni di caccia interdetta. Personalmente ho amici che nei giorni di venerdì o martedì sono capaci di percorrere 400/500 chilometri pur di trovare una pastura di colombacci. Il giorno dopo? E beh … il giorno dopo sono cavoli amari per i colombacci. Ecco, questa può essere un’abilità (?); saper trovarli resta forse l’unica abilità (?).

E veniamo alla mia monomania. Quella della caccia con la posa senza successivi spari all’involo del branco che si è riusciti a fermare dove noi abbiamo voluto. Se la caccia da appostamento aereo con l’utilizzo di richiami vivi, come ho già dettagliatamente espresso, richiede una infinità di lavoretti, di aggiustamenti, di invenzioni, di adattamenti ecc ecc ebbene quella col lo sparo a fermo, a confronto, è ben più complessa. Ho specificato all’inizio di questa argomentazione “senza successivo sparo al volo dopo la scarica di posa” perché questo fatto, a mio parere, diventa la negazione di tutta la poesia che si esprime cacciando “a fermo”. Il successivo sparo all’involo stride fortemente con lo stato d’animo precedente ed annulla tutta l’emotività connessa alla capacità di posare un branco di colombacci in migrazione proprio dove si vorrebbe. Sempre a mio parere il successivo sparo al volo, anche da parte di più fucili posizionati nelle vie di fuga dei colombacci, altro non è che la volontà di fare ciccia. Lasciatemelo dire: volontà di far numero, di far ciccia. Perché allora innamorarsi della caccia con il solo sparo dopo la posa, a fermo. Per tanti motivi che non sono di facile rappresentazione. Non è affatto semplice argomentare su questa deviazione mentale. Insomma … sapete quante volte ho/abbiamo io ed il mio amico i colombi a pochi metri dal volto, ma niente … se non si posano le mani non corrono ai fucili. Posso aggiungere che cacciando con lo sparo al volo si perdono quei magici istanti collegati alla posa dei colombacci.  Si perdono quei fotogrammi di vita ravvicinata, quegli istanti di palpitazione che fanno andare il cuore a mille, quei secondi che sembrano interminabili, fin quando i colombi saranno tutti là … ad imbiancare le piante di posa, a svettare sui “secconi” abilmente posizionati proprio per invitare la loro sosta. Seguiranno momenti di silenzio. Silenzio fino all’assenso del mio amico che mi dirà … sì, puoi contare, anch’io sono in mira. Uno, due e bamhhh. Sarà la conta finale a troncare quell’emozionante scena.L’abilità in questa caccia non sta certo nello sparo (facile e redditizio) ma in tutte le difficoltà da incontrare per raggiungere il tanto sospirato effetto finale. Vedere tutte quelle sagome che cercano equilibrio su ramoscelli, vedere quei codoni che ballonzolano, vedere colombacci che vorrebbero posarsi uno sull’altro, vedere branchi di centinaia e centinaia di soggetti che docili docili vengono a cercare rifugio nel teatrino che con tanta passione e sapienza abbiamo messo in piedi è beh … è di enorme soddisfazione. Anche seguirli dopo lo sparo in quel loro allontanarsi a volte neppure tanto impauriti per il sol fatto di non aver visto uomini e fucili fuoriuscire dai capanni è eccitante e malinconico assieme. Restiamo così, con gli occhi appesi a quei voli che vanno, vanno … verso il loro destino.

Credo fermamente che questo tipo di caccia sia tra le tante citate quella che richiede il maggior  sacrificio, i maggiori lavori, la maggior cocciutaggine, la maggior pazienza, forse anche se non la maggior ma certo una corposa dose di esperienza, credo insomma che sia la caccia che se ben esercitata possa dare origine a quello che il nostri amici francesi chiamano il “male blu”. Una malattia incurabile, ma da dolce da vivere. Prova provata è l’esperienza del mio amico Silvano. Lui cacciava in una valle più a nord della mia. Aveva ottimi risultati. Invitato, mi fece visita e come usa dire “folgorato sulla via di damasco”, divenne mio socio di caccia.

In merito ai nostri risultati posso certo affermare che se cacciassimo al volo raddoppieremmo/triplicheremmo i nostri carnieri. Infatti, a seguito delle nostre azioni di richiamo, i colombacci transitano molte volte a tiro utile dei nostri fucili, ma niente da fare tra noi e “loro” esiste un patto: non si posano … e noi non spariamo. Dopo la conta, quando parte il nostro “doppio”, a volte cade un solo colombo, a volte due, altre più di due, ma il carniere resta certo inferiore a quello realizzabile al volo. Segnalo che questa è una caccia molto “pulita”: insomma, difficile fare feriti e far tribolare così uno splendido migratore.

Cosa posso aggiungere? Certo: lo sparo sincrono tra me ed il mio amico evita quelle incongruenze dovute al diverso modo di sparare di due fucili che anche dallo stesso capanno hanno tempi di reazione diversi. Insomma l’azione di caccia la si divide, la si vive, la si gusta assieme in una maniera di poetica comunione.

Come concludere questo mio scritto? Certo ripetendo che non mi sento migliore di altri cacciatori. Ecco, per siglare queste righe posso far riferimento ad alcuni pensieri che ho evidenziato nel mio ultimo libro (Tanti personaggi, un solo protagonista); ebbene, trattando di due cacciatori francesi che nella loro giovinezza avevano frequentato i più rinomati valichi pirenaici raccogliendo sacchi di colombi e che nella loro età matura cacciavano in una palombiére dotata di reti a copertone racimolando poco o niente …  così ho scritto: “ La caccia allora diventava comunione col creato, assonanza d’animo, ricerca di significati in un vuoto cosmico, consapevolezza di vivere dimensioni ancestrali. Tali stati d’animo, incomprensibili e irraggiungibili ai più, regalavano benessere e pienezza di cuore ai fortunati che provavano questi sentimenti”.

E allora? Allora, se volete, provate anche voi a non sparare non appena i colombacci saranno a tiro del vostro trombone. Non abbiate paura di perdere un’occasione e lasciateli fare … forse si poseranno ed anche voi resterete ammaliati dalla “poesia” che traspira dalla posa di un branco di colombacci.

Rinaldo Bucchi