La caccia è stata sempre esercitata nel territorio poggibonsese fin da tempi molto lontani, sia per diletto dalle persone più agiate, che per integrare l’alimentazione quotidiana da quelle più povere, contadini, boscaioli, artigiani, ecc…
Ne abbiamo una prima testimonianza in una lettera in latino inviata nel sec. XIV da un umanista locale, Cambio da Poggibonsi, ad un suo amico letterato, tale Geri di Arezzo. Nella lettera Cambio racconta del suo tentativo di sottrarsi al dominio di Venere che lo vuol rendere schiavo. In suo soccorso arriva ad un certo punto Diana, che lo conduce a caccia con sé. Vittima della contesa tra le due dee è una lepre, che adesso Cambio vorrebbe gustare insieme al suo amico Geri. Quest’ultimo gli risponde che è contento dell’invito e prevede l’arrivo di vari commensali affamati, anche se lui tuttavia si professa ancora seguace di Venere.
Un paio di secoli dopo è Anton Francesco Grazzini, più noto come il Lasca, nome assunto entrando a far parte dell’Accademia degli Umidi, che in una rima nella quale rivendica con orgoglio le sue origini di Staggia, nel declamare le lodi di quel territorio, racconta che lì “così lieti e contenti/vivendo andiamo il tempo consumando/or uccellando, or cacciando, or pensando e talora cavalcando”.
Ma la caccia, come dicevamo sopra, non era praticata solo per diletto e veniva perciò regolata da severe leggi. Nel ‘700 era praticata soprattutto la caccia alla selvaggina mobile (lepri e volpi) o al varco (colombi), specie nei boschi di Monternano e Gaggiano, per la quale la licenza veniva chiesta direttamente al Podestà. Un bando granducale vietava la caccia dal primo giorno di Quaresima fino a tutto agosto. Le pene per i trasgressori erano severe: 25 scudi e due tratti di fune se il reato avveniva in zona di bandita e 20 scudi e sempre due tratti di fune se avveniva fuori. Era severamente vietato l’uso di balestre, frugnoli (sorta di lanterne per catturare, abbagliandoli, gli uccelli di notte), lacci ed altri strumenti del genere in qualsiasi periodo dell’anno.
Nonostante questi severi provvedimenti, non mancavano le infrazioni. Nel 1754 tale Ottavio Semplici è denunciato per aver cacciato con l’archibugio nel bosco di Gamberaia in periodo di Quaresima. Pietro Pacini di Staggia per aver ucciso una lepre fuori calendario ed averla nascosta nel carniere. Poi c’è il caso particolare di un certo Pietro Leoncini di Talciona, il quale si mostra recidivo. Nel 1796 viene aperto un fascicolo contro di lui con l’accusa di “lepricidio” (sic). Il fatto viene scoperto dopo che si era accesa una discussione sulla caccia tra alcuni contadini presso il Mulino della Strolla. Ma quattro anni dopo il Leoncini ci ricade di nuovo e spara questa volta, in assenza di lepri, ad una gallina. Il contadino, proprietario dell’animale, ovviamente protesta e il Leoncini gli risponde che se non si cheta sparerà volentieri anche a lui. Parte quindi una nuova denuncia e un nuovo procedimento giudiziario.
A volte alcuni vanno a caccia senza la dovuta licenza. A seguito di un incidente di caccia durante il quale una persona resta ferita si scopre che un gruppo di persone era andato a cacciare “due ore avanti al giorno, al lume della luna, collo schioppo, ad ammazzare o impaurire e così scacciare dai campi i tassi e gli istrici”.
Nel ‘700 molti abitanti di paese usavano tenere le colombaie. I colombi poi giravano per le strade e le piazze del paese, finendo a volte preda di passanti o avventori del mercato. Un tale Montanelli di Fucecchio in giorno di mercato viene visto afferrare un piccione terraiolo, è subito denunciato per “colombicidio” e finisce in tribunale. Segue un lungo interrogatorio di imputato e testimoni, con una descrizione minuziosa dell’animale, il tutto riportato in un lunghissimo verbale. Il procedimento finisce con una multa salata per il colombicida, che viene alla fine, dopo aver pagato, rimesso in libertà. Spesso protagonisti di tali episodi erano pure i mandriani o i pastori che attraversavano il paese con le loro mandrie o le loro greggi.
La caccia di frodo continua a verificarsi anche nell’800, se alcuni proprietari, come Giovanni Bernabei o il rev. Alessandro Renieri di S.Antonio al Bosco sulla Gazzetta di Firenze pubblicano un loro avviso con il quale diffidano chiunque dal cacciare nei loro poderi della Verrucola, si S.Silvestro, di S.Antonio e di Staggia, imitati poi dalla marchesa Ginori e dal possidente Francesco Ticci. Anche Alessandro Morelli e Attilio Ciaspini, sempre sulla Gazzetta di Firenze, avvertono che agiranno legalmente contro chi verrà sorpreso a praticare la caccia o l’aucupio (caccia agli uccelli con le reti e la pania, sostanza appiccicosa ricavata dalle bacche del vischio) nei loro poderi di Poggibonsi.
Nei primi decenni del ‘900 si prevedono infine addirittura 10 lire di ricompensa alle guardie venatorie per ogni contravvenzione effettuata con sentenza passata in giudicato. La caccia non si ferma neppure negli anni di guerra. Questo, ad esempio, il calendario di caccia per l’anno 1916/17:
la caccia si esegue dal 20 agosto al 20 gennaio;
per i cinghiali dal 15 novembre al 28 febbraio;
per i colombacci dal 20 agosto al 26 marzo;
per gli uccelli acquatici fino al so aprile;
per l’aucupio a pavoncelle, pivieri, storni, gambette fino al 30 aprile, purché con maglie non inferiori a 9 cm.
(V. F. Burresi “Poggibonsi nel Settecento – dai Medici a Pietro Leopoldo alla Rivoluzione” Poggibonsi 2022; R. Weiss “Il primo secolo dell’umanesimo” Roma 1949; “Rime burlesche di A.F.Grazzini detto il Lasca a cura di C. Verzone, Firenze 1882; Arch. Stato Siena e Arch. Vic. Certaldo, filze varie; Gazzetta di Firenze 1843)
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