Tradizione caccia al colombaccio nelle Marche

a cura di Francesco Paci

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C’è una sindrome, a carattere prevalentemente ereditario, che colpisce i marchigiani maschi (in qualche rarissimo caso, femmine), generalmente nella post-adolescenza e li accompagna poi per tutta la vita.
Una sindrome particolarissima, dalle manifestazioni a cicli rigorosamente annuali e dal decorso assolutamente benigno.
Si manifesta con i primi segnali, ancora appena percettibili, verso la seconda metà di settembre, aumenta di intensità patologica, gradualmente, fino alla seconda metà di ottobre, e poi, sempre gradualmente, recede, lasciando nelle persone colpite, dei postumi assolutamente specifici : un senso diffuso di malinconia e di nostalgia.
In genere il periodo di massima patologia cade verso la seconda decade di ottobre, influiscono però molto le condizioni meteorologiche, che possono sfasare i tempi canonici del decorso del morbo.
L’agente patogeno non è né un batterio né un virus: individuato fin dai tempi del dominio pontificio sulle Marche, esso è un migratore: la palomba.
Il nome italiano di questo columbide migratore, un pò più grosso dei comuni piccioni, sarebbe “colombaccio”, ma per i marchigiani “ammalati” questo termine è del tutto inutilizzato, quasi estraneo, e mentre alla palomba sono immediatamente connesse evocazioni emotive assai intense, “colombaccio” è solo un freddo termine da dizionario….
come il nome e il cognome di certi personaggi noti esclusivamente con il loro nome “di battaglia” e per i quali il nome anagrafico ufficiale, non c’entra proprio. E’ una tradizione antica, quella della caccia delle palombe, nelle Marche. Una tradizione illustre e del tutto specifica, un compendio di tecnica e di cultura venatoria di grande pregio che, per la sua peculiarità, non trova riscontro in nessuna altra parte d’Italia. Ad essa , per chi la pratica, o meglio per chi ne ha il culto, (perché di ciò in effetti si tratta – e si deve trattare !-), sono legati momenti indimenticabili, situazioni che un’atmosfera quasi magica rende irripetibili e restano come scolpite nella memoria e nell’anima di chi le ha vissute. Perché ? La risposta è forse impossibile. Però è sempre stato così: la prima regolamentazione della “caccia alle palombe” nelle Marche, fu attuata ad opera di un Legato Pontificio il quale si indusse a regolamentarne l’esercizio perché, come riferiscono le cronache del tempo, “a causa del grande stato di eccitazione che questa caccia determinava in chi la praticava, non erano infrequenti fatti di sangue”. Grande stato di eccitazione: sicuramente vero, ma perché ? Forse perché il passo è soggetto a regole così imprevedibili da far dire a qualcuno che l’unica regola certa è la beffa ! E l’attesa, che è la costante psicologica di questa caccia, determina sicuramente una certa carica di tensione. Così, quando l’immagine indubbiamente entusiasmante di una “tela” di palombe (così venivano da noi chiamati i grossi branchi che, ancora lontani, davano l’impressione del rado tessuto della tela) si presentava all’orizzonte, l’eccitazione era subito grande. Non solo per lo spettacolo, già di per sé emozionante della migrazione, ma per tutte le implicazioni psicologiche connesse: quella “tela” infatti, anche se lungamente attesa, poteva essere la prima di una serie, ma poteva anche essere l’unica per molto tempo a venire ; avrebbe potuto “degnare” ai richiami e venire sulla “caccia”, come avrebbe potuto andarsene indifferente a tutto. Ecco perciò che questo totale stato di incertezza, fino all’ultimo, acuisce la tensione ed esalta l’emozione dell’avvistamento. Magnifica, quasi magica visione, quella dell’avvistamento, quando ancora non si capisce bene se siano un’illusione ottica o qualcosa di reale quei minuscoli puntini fitti che appaiono e scompaiono laggiù davanti, verso il mare, finché prendono consistenza e diventano visibili con sicurezza: sono loro! Quella verifica, durata qualche attimo, ha avuto nel frattempo l’effetto di caricare emotivamente l’osservatore così tanto, che appena i puntini sono con sicurezza “le palombe”, esplode “l’avvisata” : “Sopra ‘l fosseeeee ……” la voce mantiene un tono alto e fortemente concitato, specie se il branco è grosso e promette bene, poi continua con l’ordine a qualcuno degli addetti alla “lascia” , di lasciare il piccione; la voce seguita nella sua “cronaca urlata” ma musicale, senza stonature : c’è una intensità vocale modulata, a volte vicina al parossismo, ma che mantiene sempre una dignità musicale. Se le palombe se ne vanno, la voce assume un tono distaccato e quasi lirico, se invece “degnano” , il tono diventa sempre più drammatico, vibrante e cupo, talvolta addirittura dolente, fino a quando è il silenzio, breve ma intensissimo, che precede il momento culminante: quello della buttata, a cui segue, in tono alto e concitato la “conta”. Le palombe erano “avvisate” dal momento in cui erano viste, fino a quando, se andavano via incuranti, non scomparivano verso sud, dalla vista dell’avvisatore, e ciò consentiva, anche a chi si trovava nei capanni dai quali la vista non era totale, di seguire tutta la vicenda con piena partecipazione emotiva. I grandi “avvisatori” di un tempo, veri tenori silvani, nonché efficaci attori, per la vibrante interpretazione dei momenti più delicati (quando le palombe, ormai vicine, giravano basse sulla caccia per le ultime verifiche prima di decidersi alla “buttata”), erano capaci di provocare una tale emozione nei cacciatori, che nei giorni in cui mancavano, e qualche improvvisato sostituto si cimentava nell’”avvisare”, una parte fondamentale della bellezza e del piacere che quelle sequenze di caccia determinavano , era senz’altro perduta.


I- La caccia delle palombe classica nel montefeltro

1. L’avvisatore

Trascinati dalla evocazione, prima ancora di ricordare la struttura della “caccia “marchigiana, abbiamo già tirato in ballo l’avvisatore. Era questo, della compagine dei coadiutori, il primo ad entrare in azione. Era sistemato in posizione con buona visibilità ed avanzata rispetto alla “caccia” (con questo termine si intende tutto il complesso impianto arboreo di cui diremo). La funzione dell’avvisatore era quella di vedere per tempo le palombe in arrivo, consentendo la perfetta tempestività di tutte le operazioni degli altri coadiutori (cosa assolutamente determinante per la riuscita). E’ infatti una caccia non facile questa. E’ vero che oggi cacciare è diventato sinonimo di sparare , e sinceramente sparare a dei branchi di palombe che passano sopra o di fianco, a qualunque distanza si trovino, come oggi usa, non è davvero difficile; ma evidentemente parlavamo di ben altro. Ci auguriamo che chi legge intenda e non parli del dito mentre questo sta indicando la luna! Caccia non facile, basta avere visto le palombe da vicino, o guardarne, in qualche fotografia un pò ravvicinata, gli occhi! Sono animali di una tale diffidenza che solo chi li conosce bene sa fin dove arriva. Perciò la tempestività, l’esecuzione il più possibile naturale delle varie operazioni di richiamo, sono cose fondamentali. Cose che devono essere messe in atto da persone esperte, attente a non commettere il minimo errore, che potrebbe compromettere tutto. Le manovre di richiamo erano a volte lunghe e difficili, perché, nella caccia marchigiana classica, le palombe si dovevano posare sulle piante della “caccia” e talvolta, con i grossi branchi molto alti e spostati , venivano messi in atto tutti i mezzi di richiamo possibile, in particolare, venivano lasciati diversi piccioni ammaestrati – di cui diremo – nel tentativo , talvolta coronato da successo, di farle scendere. Ecco, i momenti sicuramente più belli per gli appassionati, sono proprio questi, quando il branco, ancora altissimo, ha qualche incertezza nella sua marcia in avanti e dalle retrovie (spesso è proprio l’ultima) qualcuna chiude le ali e scende a picco, seguita mano a mano dalle più vicine e quindi, gradualmente, e talvolta con una certa malavoglia, dalla testa del branco (dove si trovano le più forti e le più diffidenti) con un movimento tipico a imbuto, la cosiddetta “petriola” , che, attraverso momenti di rara intensità emotiva, dominati e scanditi dal grido concitato dell’avvisatore, porta quelle palombe altissime, attraverso un turbinio di picchiate a capofitto, a “ballettare”, con l’inconfondibile sibilo delle “loro” ali, sulle piante di buttata, in un brillio di ali e di colori insospettabili in quegli oscuri uccelli visti lassù nel cielo poco prima. Sono questi i momenti più belli, quelli che ripagano di tutte le delusioni, non rare, che questo tipo di caccia pure dispensa, i momenti che segnano la vittoria dell’abilità degli uomini cacciatori sulla estrema diffidenza di quei selvatici signori dell’aria. Vittoria che non è certo né scontata, né facile: per rendersene conto non c’è bisogno di grandi esperimenti, basta affidare le operazioni di richiamo a persone non tanto esperte: si vedrà bene come il comportamento dei selvatici diventi incurante, guardingo, se non addirittura spaventato ! Tornando all’avvisatore, questi era talora preceduto, a grande distanza, da un altro avvisatore, questo però munito di una sorta di tromba con funzione di preallarme, mentre il secondo, quello più vicino alla “caccia”, (ma sempre a 400-500 metri da questa) era il vero e proprio “avvisatore”. La funzione originaria ed istituzionale dell’avvisatore era, come si è detto, quella di avvertire per tempo dell’arrivo dei selvatici, sia gli addetti alla lascia, sia i cacciatori all’interno della “caccia”, che, tranne che nelle giornate di grande passo, quando tutti stavano sempre all’erta, passavano la giornata in chiacchiere, giochi vari, pennichelle e spuntini, oltre, naturalmente, al pranzo di mezzogiorno, nel quale erano un pò tutti sempre molto coinvolti. A mezzogiorno, di regola, il passo aveva una sosta, e la cosa non era sgradita perché quella sosta era sempre ben riempita, con pranzi quasi sempre importanti, e non solo per quantità. Ma era anche regola che talvolta, durante il pranzo, capitasse un’”avvisata” di quelle brucianti, dai toni particolarmente intensi, segno di un grosso branco, buono per la caccia: in un sussulto di piatti e bicchieri tutti correvano verso la rastrelliera dei fucili e poi verso il “voltabotte” per andare ai rispettivi capanni; tutti tranne qualche irriducibile buongustaio, immancabile, che, magari già un pò convinto dal vino, snobbava sardonico quel troppo precipitoso ed ingenuo abbandono del buon momento sicuro, notando, con aria saputa: “……….chissà cosa faranno, ancora sono laggiù, sopra il fosso!”, salvo poi magari scappare anche lui scornato, anche se forse non troppo dispiaciuto, alle grida sempre più lamentose e strascicate che ormai “le” avvisavano sopra la caccia tutte “in degnata”. Dicevamo, se la ragione primaria dell’avvisatore (un appassionato viscerale, ma ben capace di autocontrollo) era una ragione “tecnica”, e cioè quella di avvertire per tempo dell’arrivo delle palombe, non erano trascurabili, sempre dal punto di vista “tecnico” , anche la sua funzione di “regista” delle varie operazioni di richiamo e di “cronista” delle sequenze venatorie. Ma certamente di massima importanza, seppure su un altro piano, puramente estetico, era l’effetto “teatrale”, emotivo, che questa figura riusciva a creare, una vibrante coreografia vocale difficile da dimenticare, come una bellissima colonna sonora di una altrettanto bella sequenza cinematografica. Per chi ha avuto modo di “sentirlo”, con il cuore, s’intende, più che con l’orecchio, l’avvisatore è davvero irrinunciabile!

2. Le Lasce

Se il branco di palombe in arrivo aveva una direzione che non lo portava verso la “caccia”, l’avvisatore dava il comando agli addetti alla “lascia” di “lasciare”. Con questa espressione si intendeva il lanciare un piccione ammaestrato che, portato distante dal “pollaio” dei piccioni, vi faceva rientro appena “lasciato” ; la sua funzione era quella di indurre i selvatici in arrivo a seguirlo facendoli deviare verso la “caccia”. Le “lasce”, cioè i capanni e ripari dai quali l’addetto lasciava i piccioni ammaestrati (questi pure detti “lasce”), erano situate in posizione avanzata e laterale rispetto alla “caccia” (diritte davanti sarebbero state infatti superflue). Sulla sinistra, da dove più facilmente le palombe deviano, per antica regola, tanto oscura quanto di frequente riscontro, le lasce potevano essere anche più di una, a seconda della situazione specifica e delle necessità concrete della “caccia”, vale a dire a seconda della posizione di questa rispetto alle linee di più abituale passaggio delle palombe. C’era poi la lascia di “ritorno”, detta comunemente soltanto “ritorno” , che era situata più in alto e dietro la caccia e veniva azionata quando le palombe erano ormai passate, ed era l’ultima speranza. Ma una speranza ancora formidabile, perché il piccione che , andando verso il basso, scendeva ad ali semichiuse, aveva spesso un effetto risolutivo sui branchi pur insensibili a tutti i richiami messi in funzione prima. Ovviamente moltissimo contava il “manico” dell’operatore, come del resto in qualsiasi operazione di richiamo in questa caccia. Ma il ritorno era senz’altro il punto più delicato, assieme alle “palpe”. L’addetto alla lascia, al comando dell’avvisatore, liberava uno dei piccioni che aveva con sé, avendo cura di non farlo andare di faccia alle palombe, perché altrimenti si sarebbero solo spaventate. Se necessario, ne lasciava un altro, sempre a comando, o talvolta anche a suo giudizio, ma tenendo ben presente che un piccione può forse essere poco, ma due possono spesso essere sicuramente troppo. In certi casi invece (palombe molto alte o molto lontane ), si faceva addirittura “la fila”, cioè si lasciavano i piccioni uno dietro l’altro, facendo partire il successivo quando il precedente stava atterrando al pollaio od era prossimo ad arrivare. “La fila”, imitando il comportamento dei selvatici allorché si dirigono verso un luogo di pastura, esaltava l’efficacia del richiamo, che, altrimenti, data la enorme distanza dei selvatici, sarebbe stata assai scarsa . Questa operazione era più tipica per il “ritorno” ; accadeva qualche volta, con branchi molto alti e molto grossi, che molti, a volte tutti, i piccioni, fossero lasciati, nella speranza di indurre il branco, o meglio qualcuna del branco, che poi avrebbe tirato altre dietro di sè (e non raramente l’intero branco), a scendere sulla caccia. A volte era tutto inutile, ma qualche volta la cosa funzionava ed allora lo spettacolo era veramente emozionante: la voce dell’avvisatore, ormai quasi rassegnata, all’accenno di “degnata” anche di una sola, si impennava, improvvisa, facendo accelerare il battito del cuore dei cacciatori nei capanni; cresceva di intensità a mano a mano che la “degnata” diventava più decisa, poi quasi si preparava a dispiegarsi a pieni polmoni, come per un canto di gioia, avvisando il cambio di direzione di tutta la “tela” altissima, che si spostava nel cielo, in volo, non più diretto e remato velocemente , ma dolce e quasi planato verso la caccia, mentre ogni tanto, come ciottoli scuri, in vertiginosa picchiata ad ali completamente chiuse, dalle ultime palombe della coda del branco, si staccavano le prime, decise a “buttarsi”, qualche altra scendeva, anche dal centro, finchè quelle in picchiata diventavano più numerose ed allora tutto il branco le seguiva con maggior decisione incominciando a fare la classica “petriola”, mentre la voce dell’avvisatore, strozzata e stremata, esaltava tutta la sequenza. Sequenza che seguitava a far trattenere il respiro, con quella sorta di balletto finale della maggior parte del branco attorno alle querce, che la estrema diffidenza di questi selvatici voleva attentamente ispezionare prima di decidersi ad accettarle come luogo di sosta. E con le querce che sempre più si coloravano di turchino, ripartiva stentoreo l’avvisatore : “attenti alla contaaaa……..unaaaa…….dueeeee…….tè ! ” Al rumore degli spari presto si sovrapponeva il clamore delle voci eccitate che, a lungo, compresse dall’emozione, si liberavano ora nei commenti dei momenti più intensi, mentre si cercavano le palombe morte, in genere segnalate da vistose tracce di piume rimaste nelle foglie soprastanti.

3. I volantini del pollaio

Nella caccia, circa 40 metri più avanti e un pò più in basso delle piante “di buttata”, era sistemato il “pollaio” dei piccioni. Un capanno (di muratura o di legno), capace di accogliere i molti piccioni impiegati nelle varie mansioni. Al pollaio convergevano, come si è visto, i piccioni lasciati dalle varie “lasce” e dal “ritorno”, inoltre nel pollaio, su una sorta di rastrelliera fatta di bastoni incrociati, stazionava un gruppo di piccioni, i c.d. “volantini”, che venivano fatti partire quando le palombe, ancora lontane, (perché se vicine, l’effetto sarebbe stata la loro fuga!), venivano diritte verso la caccia, e quindi le lasce non servivano. I volantini facevano un giro o due attorno al pollaio e poi tornavano a posarsi sulla rastrelliera dove stavano abitualmente. I volantini, di cui si parla, quelli impiegati nella tradizione marchigiana erano piccioni comuni, di colore bigio. Oggi, quasi dappertutto i volantini sono quelli provenienti dall’Umbria, una razza speciale, selezionata in quella Regione e particolarmente predisposta per questo lavoro.

4. Le palpe

4. Le palpe Nelle querce della caccia, sui quattro lati, ben visibili dalle quattro direzioni, venivano sistemate “le palpe”. Si trattava di palombe (preferibilmente), o di piccioni, a cui era applicato un cappuccio per evitare che si agitassero (soprattutto le palombe); le palpe venivano fatte salire, montate sulla racchetta, in alto sulle querce mediante un marchingegno a mò di carrucola. La racchetta su cui l’animale poggiava i piedi, poteva essere fatta oscillare tirando il filo. L’oscillazione della racchetta faceva sì che il richiamo, per restare in equilibrio, fosse costretto a battere le ali, facendosi così notare dalle palombe in arrivo. C’era anche un altro tipo di “palpa” il c.d. “racchettone”: un bastone fulcrato non al centro, in modo che il peso del bastone e del richiamo, poggiato su una estremità del bastone stesso, lo facevano ritornare in posizione orizzontale, ogni volta che veniva fatto alzare dall’addetto, tirando una funicella. Nel ridiscendere il richiamo batteva le ali attirando così i selvatici. Il racchettone in genere era, a differenza delle palpe vere e proprie, sistemato nella parte bassa delle piante e piuttosto in avanti e in basso rispetto alle piante di buttata della caccia; su di esso veniva sempre messo un piccione. La sua funzione era quella di rompere il ritmo del volo delle palombe, abbassandole e invogliandole a scendere, cosa per la quale entravano poi in funzione le palpe vere e proprie, che erano quelle decisive. Da notare che con il termine “palpa”, si intendeva tanto l’animale che vi viene impiegato quanto il meccanismo relativo. La palpa era uno dei punti più delicati della caccia delle palombe. Infatti, se è vero che “data” bene può essere risolutiva, è altrettanto vero, anzi è ancor più vero, che “data” male è altrettanto risolutiva …….per mandare tutto a monte ! L’uso della palpa richiede esperienza, sensibilità ed estrema attenzione alle reazioni mostrate dai selvatici. Assai importante è anche la scelta del punto dove sistemare le palpe. L’esperienza ha spesso dimostrato che uno spostamento anche modestissimo, a volte anche solo di un metro o due, faceva cambiare completamente i risultati e, mentre prima quella palpa aveva un effetto approssimato e alla fine poco produttivo, dopo lo spostamento diventava un richiamo formidabile, con effetti entusiasmanti. Ed è un problema, quello della collocazione della palpa, che si risolve solo per tentativi, a volte l’esperienza, che pure conta, deve arrendersi di fronte a realtà del tutto impensabili !

5. La caccia

“Caccia”, come si è detto, è un termine che può essere riferito, nella tradizione marchigiana, a tutto l’impianto di caccia alle palombe, ma, in senso più specifico, può anche significare la parte di esso dove si spara, cioè la zona delle piante “di buttata” , con i relativi capanni ed il “voltabotte”. Le piante “di buttata” sono gli alberi – in genere querce – che formano un gruppo arboreo invitante alla sosta delle palombe. Tutto attorno sono sistemati i capanni dove stanno i cacciatori (uno o due per capanno). I capanni sono in genere collegati tra loro e con il luogo dove i cacciatori si radunano……cessato l’allarme, dal voltabotte, un camminamento a mò di volta, tutto coperto in modo naturale, dai rami, adattati, nella morta stagione, a formare appunto questa specie di tunnel vegetale. Anche lungo il voltabotte, che circonda le piante di buttata, vi sono posti da cui sparare, ma la sua funzione è essenzialmente quella di consentire ai cacciatori di spostarsi fino ai rispettivi capanni mentre le palombe sono in arrivo. Infatti, la possibilità per i cacciatori di riunirsi in gruppo per passare quelle amene, irripetibili giornate di festa, non ci potrebbe essere senza il voltabotte, perchè la vista, da parte delle palombe, dei cacciatori in movimento, per recarsi ai capanni, sarebbe deleteria, e, d’altra parte, se i cacciatori non si riunissero, verrebbe a mancare uno degli elementi più caratteristici e più significativi di questa caccia: l’atmosfera. Atmosfera che dal riso più irrefrenabile, passava di colpo ad un’attesa fremente, che l’urlo dell’avvisatore alimentava in una straordinaria altalena emotiva, completamente avvincente. Nella caccia infatti si riuniva spesso una tipologia umana così varia, fatta di buontemponi, buongustai, e personaggi particolari di vario genere, cosicchè quasi sempre la giornata trascorreva in una risata e in una festa continua. Tranne quando era festa grossa, cioè quando c’era un grosso passo di palombe, allora ognuno stava al suo posto e ogni tanto , negli intervalli tra un branco e l’altro, si alzava qualche voce con qualche battuta che suscitava un coro di risate con strascico di repliche a rimbalzo dai vari capanni, e risate generali, interrotte dall’urlo lontano dell’avvisatore che strozzava la gola a tutti i più appassionati, mentre i buontemponi azzardavano ancora , a voce smorzata, qualche amenità , che però riusciva al massimo a piegare al sorriso la bocca degli altri che, incollati alle “cecarole” (le piccole fessure dei capanni da cui guardare e sparare), ormai erano totalmente presi dalla nuova “magia” del branco in arrivo. Si arrivava nella caccia prima dell’alba , per sistemare le palpe, prendere i piccioni da dare ai vari addetti alle lasce, mettere fuori i volantini del pollaio. Poi c’era l’attesa dei tordi alle primissime luci e poi incominciava il “passetto “ , ovvero il passo delle palombe che, si diceva arrivate di qua dal mare nella giornata precedente , ripartivano la mattina presto per il loro volo verso sud. Il passetto era meno utile per la caccia a fermo, perchè si trattava di selvatici appena partiti e quindi con poca propensione a fermarsi di nuovo. Verso le 8 del mattino il passetto era finito e c’era una sosta fino verso le 9-9,30, sosta che veniva impiegata per la colazione, non di rado piuttosto consistente e prolungata: il fresco ottobrino , quel dolce solicello, l’aria del bosco, la compagnia, il naturale buonumore, facevano sì che il sostanzioso breakfast degli inglesi fosse un misero spuntino al confronto! Qualche cultore della materia si è cimentato anche (in giornate senza passo) in un “raid” pressoché ininterrotto fino al pranzo , dove, naturalmente, non ha voluto essere da meno degli altri! Verso le 9-10, a volte anche le 11, se la giornata era di buon passo, incominciava il passo vero e proprio. Cominciavano prima a passare branchetti di fringuelli, di “babussi” (pispole), di fanelli, di codazzine, lucherini, e dopo circa 20 minuti , mezz’ora ecco le palombe! A volte capitava anche che dopo molti branchi di uccelletti non si fosse ancora vista una palomba, e a volte andava avanti così fino a sera: giornate nelle quali quasi si scandivano i secondi, in un’attesa fremente , per la assoluta convinzione che da un momento all’altro sarebbe “esplosa” l’avvista. Ma è proprio questo il bello di quella atmosfera, o meglio, il magico , quel qualcosa che c’è quando c’è , senza che previsioni , ragionamenti, esperienza, possano troppo funzionare. Ed è bello così. Non che ragionamenti sul passo non se ne facciano, ché anzi, sono occupazione di tutti i giorni , come pure fatto quotidiano sono lo studio , o meglio , la “divinazione” dei dati meteorologici, ma in tutto questo ci si accanisce particolarmente quando “il passo è fermo”: allora si fa addirittura dell’accademia e si teorizza un pò di tutto. Quando c’è passo, o quando è fiacco, a mezzogiorno c’è però , puntuale, il branco più sicuro, quello dei piatti. Chi sa maneggiare al fuoco e c’è quasi sempre qualcuno che sa farlo (non di rado c’è anche qualche donna), si occupa della cucina e quando la pasta è pronta (tradizionali nella caccia sono i fischioni), si riempie la tavolata e si dà inizio …….alle ostilità. Dopo i primi bicchieri di vino, l’atmosfera diventa subito ben calda, continua a scaldarsi per tutto il pranzo, per culminare, dopo il dolce, con i liquori finali , sempre in cospicuo assortimento. Se c’è poco passo e la compagnia funziona – ma è raro che non sia così, – l’impegno a tavola si protrae molto a lungo, insistendosi con dolci vari , scherzi, liquori in ordine sparso. Pensando che queste sono le giornate meno esaltanti, perché quando c’è il passo , c’è una eccitazione particolare che rende tutto molto più festoso, si può capire come i più appassionati (ma anche i meno) pongano questo periodo in un posto abbastanza alto nella scala dei propri interessi, e si può anche capire , come un grande appassionato di questa caccia, nonno dell’autore di queste righe, in punto di morte avesse lasciato in testamento morale al proprio figlio , di passione non totalmente affidabile, il compito di “armare la caccia” tutti gli anni …….pensava certamente ai nipotini ancora bimbi ; od anche come un giovane ventenne , morente di tifo, in ottobre, continuasse a ripetere nel delirio: ”dai la palpa, dai la palpa, che vengono tutte!…….” Circa 15-20 giorni vissuti con una tale partecipazione alla natura ed ai suoi fatti, il tempo, il vento, analizzati, quasi assaggiati, certamente vissuti, talora addirittura attimo per attimo, come quando, dopo giorni di brutto tempo si scruta in continuazione verso il mare alla ricerca dei primi segni dell’atteso vento “ripulitore“ ; e poi il passo, questa misteriosa e tanto attesa “entità” così inafferrabile ! Tutte cose che, quando quel periodo finisce ,lasciano oltre un pò di malinconia e tanta nostalgia , anche un certo intimo disadattamento alla vita “normale”. Quei postumi di cui dicevamo all’inizio!