“In pratica, i piccioni saprebbero riconoscere una parola ben formata, ad esempio ‘casa’, da una mal formata, come ‘csas’”, chiarisce Vallortigara. “Non si tratta di saper leggere, ma vuol dire comunque che questi animali, una volta addestrati, sanno generalizzare, estrapolando le regole statistiche con cui vengono formate le parole in una determinata lingua, ad esempio che in inglese la coppia di lettere C-H sia molto più comune di C-B. E in questo modo, arriverebbero a processare le parole in modo ortografico. È un risultato interessante, che ci aiuta a capire da dove nasce la nostra stessa capacità di lettura”.
Nel cervello umano, continua il neuroscienziato, c’è infatti un’area specifica dedicata ad analizzare la forma visiva delle parole, la cui esistenza però non è facile da spiegare da un punto di vista evolutivo, perché la nascita della scrittura è molto più recente rispetto a quella del linguaggio parlato. Per questo motivo, è stata proposta l’ipotesi che si tratti di un cosiddetto processo di “neuronal recycling”, cioè che la nostra specie abbia riciclato capacità più antiche (e quindi presenti anche nel cervello di animali più semplici dell’uomo) destinandole a un nuovo scopo, in questo caso il riconoscimento delle parole.
“Un’area cerebrale sviluppatasi per riconoscere le forme degli oggetti del mondo naturale può quindi avere anche un utilizzo differente, e nel cervello di un essere umano che sa leggere e scrivere si specializza nel riconoscimento delle parole”, conclude Vallortigara. “Quello che è interessante è che questo, in misura minore ovviamente, sia possibile anche nel cervello dei piccioni. Essendo una specie molto lontana dalla nostra, i risultati dello studio dimostrerebbero che si tratta di capacità estremamente condivise all’interno del mondo animale”.
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