A San Colombano a caccia di Urbino

Questo bellissimo articolo di Marcello Sassi è stato pubblicato su un giornale locale
di Lodi nel 2006 .

Sono nato e vissuto a Lodi ma le origini sono marchigiane. Marchigiani e più precisamente urbinati mi ritrovo luoghi importanti del cuore e della memoria ancora oggi quando lungo si è fatto il tempo trascorso dagli autunni di caccia che ogni anno solevo vivere con mio padre sulle colline di Urbino, sua città natale. Ci muoveva il passo dei colombacci che, in ottobre, dopo aver attraversato l’Adriatico, sorvolavano in grossi branchi le regioni dell’Italia Centrale per raggiungere climi più miti. Il colombaccio, per il cacciatore lombardo, non è che un piccione selvatico e quindi una preda poco ambita. In verità è infinitamente più bello e regale del suo consimile domestico quando il sole gli si riflette sulla sommità delle ali che, bianchissima, interrompe inaspettatamente l’azzurro tenue del resto del corpo. Il cielo terso d’autunno si riempie di candide scintille quando è attraversato dalle ali dei colombacci. A Urbino li chiamano palombe e sono un mito. Ai primi di ottobre non solo i cacciatori ma l’intera città saluta l’avvistamento del primo branco come una liberazione e una conferma. Si dissolve il timore che prima o poi qualcosa di misterioso e terribile possa interrompere il miracolo di questa azzurra migrazione mentre la natura si riafferma ancora una volta sull’indifferenza e i tradimenti dell’uomo.
… La primavera può tardare, non le palombe, senza che un latente disagio si avverta sulle ripide strade e nelle sapide parole della gente di Urbino. Irrimediabilmente orfano delle sue valli che, tra pini e querce, lasciano intravedere l’azzurro dell’Adriatico, mio padre aveva comunque col tempo imparato ad amare la pianura lodigiana ed a ritrovare, lungo l’Adda e i canali che se ne irradiano, nei boschi e nelle paludi della nostra campagna, la sua passione. Aveva scoperto i beccaccini che esaltavano le sue doti di tiratore rapido e imprevedibile quanto più di questi uccelli che si alzavano improvvisi dai canneti lungo il fiume affidandosi agli scarti del loro volo veloce e irregolare. Lui che sparava così bene mi insegnò però a non dare troppa importanza al fucile. La caccia doveva rimanere una grande voglia di natura, di albe silenziose e immacolate, il massimo di conoscenza e lealtà nei confronti della selvaggina. Imparai così bene la lezione che mai riuscii ad eguagliarlo. Nei tiri difficili mi precedeva sempre, evitandomi spesso lo smacco del colpo mancato. Mio padre di Urbino, mia moglie di San Colombano. E’ lei che mi ha iniziato alla collina del suo simpatico borgo dove ho ritrovato luoghi ed atmosfere degli autunni urbinati. Certo forzando un poco al sogno la realtà perché laggiù in fondo alla valle non scopro il mare di Pesaro ma le ciminiere di Tavazzano. Qui come la però, in autunno, l’aria frizzante e pulita del mattino, la brezza che disperde i veli di nebbia, il guizzo repentino del tordo e il suo canto inafferrabile alle orecchie profane. Qui come a Urbino il prodigio del passo dei colombacci. In certe giornate di sole, immense tele e lunghe si susseguono ad altezze incredibili, mirando diritte alla loro meta misteriosa. Pur lontane, le ali possenti frustano l’aria che vibra tutta fino a terra come percorsa da un lungo fremito di vento. Mi fermo ad osservarli, ammirato e felice della loro irraggiungibilità. Vorrei solo che mio padre fosse ancora vicino a me per leggergli negli occhi la mia stessa emozione, la febbre sottile che ci contagiava reciprocamente quando ci si preparava a partire per Urbino. Una mattina, con il pretesto di controllarne lo stato di conservazione, rispolvero la sua vecchia doppietta e parto per San Colombano. La collina è avvolta nella nebbia. Il solito percorso tra le viti ormai spoglie e gli alberi di cachi abbandonati. Ma è tardi, il passo mattutino finito e, senza sole, i tordi non lasciano i ripari nel sottobosco. Rinfrancato comunque dalla lunga camminata, penso a rientrare quando, intorno o sopra di me, avverto qualcosa che turba l’immobilità e il silenzio della campagna. Un anomalo sussulto di vento, se vento ci fosse. Sono invece sei o sette colombacci, o le loro ombre, che disorientati dalla nebbia vagano ad altezza inconsueta rendendosi vulnerabili. Imbraccio il fucile che non è il mio e il grilletto mi cede un attimo primo di quanto vorrei. Le ombre si impennano e vengono inghiottite dalla nebbia, non ho modo di aggiustare il secondo colpo. Deluso, fisso il bianco sipario che mi ha offerto e subitamente negato un’opportunità irripetibile. Ma dal cielo ovattato qualcosa sta cadendo lentamente, un’ombra azzurra che rovesciandosi nell’aria brilla di candide scintille. Con l’emozione della prima volta, abbandono a terra il fucile e mi precipito lungo il pendio. E’ una palomba bellissima, apparentemente intatta, definitivamente immota. Cancello con una carezza i segni dell’impatto col suolo e, sospesala sul palmo della mano, risalgo a recuperare la vecchia doppietta che non mi ha tradito ma, ancora una volta, soltanto provvidenzialmente preceduto. Mentre discendo in macchina verso San Colombano, la nebbia dirada un poco e mi consente di scoprire la sommità del Castello. Non so se sia un residuo di foschia o di commozione a velarmi gli occhi. Sta di fatto che il rosso cupo delle mura si stempera nell’ocra pallido del Palazzo Ducale e delle case di Urbino.

Marcello Sassi