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Tradizioni caccia al colombaccio nelle Marche
La caccia delle palombe nelle marche
a cura di Francesco Paci
C’è una sindrome, a carattere prevalentemente ereditario, che colpisce i marchigiani maschi (in qualche rarissimo caso, femmine), generalmente nella post-adolescenza e li accompagna poi per tutta la vita. Una sindrome particolarissima, dalle manifestazioni a cicli rigorosamente annuali e dal decorso assolutamente benigno. Si manifesta con i primi segnali, ancora appena percettibili, verso la seconda metà di settembre, aumenta di intensità patologica, gradualmente, fino alla seconda metà di ottobre, e poi, sempre gradualmente, recede, lasciando nelle persone colpite, dei postumi assolutamente specifici : un senso diffuso di malinconia e di nostalgia. In genere il periodo di massima patologia cade verso la seconda decade di ottobre, influiscono però molto le condizioni meteorologiche, che possono sfasare i tempi canonici del decorso del morbo. L’agente patogeno non è né un batterio né un virus: individuato fin dai tempi del dominio pontificio sulle Marche, esso è un migratore: la palomba. Il nome italiano di questo columbide migratore, un pò più grosso dei comuni piccioni, sarebbe “colombaccio”, ma per i marchigiani “ammalati” questo termine è del tutto inutilizzato, quasi estraneo, e mentre alla palomba sono immediatamente connesse evocazioni emotive assai intense, “colombaccio” è solo un freddo termine da dizionario....
A San Colombano a caccia di Urbino (II parte)
... La primavera può tardare, non le palombe, senza che un latente disagio si avverta sulle ripide strade e nelle sapide parole della gente di Urbino.
Irrimediabilmente orfano delle sue valli che, tra pini e querce, lasciano intravedere l’azzurro dell’Adriatico, mio padre aveva comunque col tempo imparato ad amare la pianura lodigiana ed a ritrovare, lungo l’Adda e i canali che se ne irradiano, nei boschi e nelle paludi della nostra campagna, la sua passione. Aveva scoperto i beccaccini che esaltavano le sue doti di tiratore rapido e imprevedibile quanto più di questi uccelli che si alzavano improvvisi dai canneti lungo il fiume affidandosi agli scarti del loro volo veloce e irregolare. Lui che sparava così bene mi insegnò però a non dare troppa importanza al fucile. La caccia doveva rimanere una grande voglia di natura, di albe silenziose e immacolate, il massimo di conoscenza e lealtà nei confronti della selvaggina. Imparai così bene la lezione che mai riuscii ad eguagliarlo. Nei tiri difficili mi precedeva sempre, evitandomi spesso lo smacco del colpo mancato.
Mio padre di Urbino, mia moglie di San Colombano. E’ lei che mi ha iniziato alla collina del suo simpatico borgo dove ho ritrovato luoghi ed atmosfere degli autunni urbinati. Certo forzando un poco al sogno la realtà perché laggiù in fondo alla valle non scopro il mare di Pesaro ma le ciminiere di Tavazzano. Qui come la però, in autunno, l’aria frizzante e pulita del mattino, la brezza che disperde i veli di nebbia, il guizzo repentino del tordo e il suo canto inafferrabile alle orecchie profane. Qui come a Urbino il prodigio del passo dei colombacci. In certe giornate di sole, immense tele e lunghe si susseguono ad altezze incredibili, mirando diritte alla loro meta misteriosa. Pur lontane, le ali possenti frustano l’aria che vibra tutta fino a terra come percorsa da un lungo fremito di vento. Mi fermo ad osservarli, ammirato e felice della loro irraggiungibilità. Vorrei solo che mio padre fosse ancora vicino a me per leggergli negli occhi la mia stessa emozione, la febbre sottile che ci contagiava reciprocamente quando ci si preparava a partire per Urbino.
Una mattina, con il pretesto di controllarne lo stato di conservazione, rispolvero la sua vecchia doppietta e parto per San Colombano. La collina è avvolta nella nebbia. Il solito percorso tra le viti ormai spoglie e gli alberi di cachi abbandonati. Ma è tardi, il passo mattutino finito e, senza sole, i tordi non lasciano i ripari nel sottobosco. Rinfrancato comunque dalla lunga camminata, penso a rientrare quando, intorno o sopra di me, avverto qualcosa che turba l’immobilità e il silenzio della campagna. Un anomalo sussulto di vento, se vento ci fosse. Sono invece sei o sette colombacci, o le loro ombre, che disorientati dalla nebbia vagano ad altezza inconsueta rendendosi vulnerabili. Imbraccio il fucile che non è il mio e il grilletto mi cede un attimo primo di quanto vorrei. Le ombre si impennano e vengono inghiottite dalla nebbia, non ho modo di aggiustare il secondo colpo. Deluso, fisso il bianco sipario che mi ha offerto e subitamente negato un’opportunità irripetibile. Ma dal cielo ovattato qualcosa sta cadendo lentamente, un’ombra azzurra che rovesciandosi nell’aria brilla di candide scintille. Con l’emozione della prima volta, abbandono a terra il fucile e mi precipito lungo il pendio. E’ una palomba bellissima, apparentemente intatta, definitivamente immota. Cancello con una carezza i segni dell’impatto col suolo e, sospesala sul palmo della mano, risalgo a recuperare la vecchia doppietta che non mi ha tradito ma, ancora una volta, soltanto provvidenzialmente preceduto.
Mentre discendo in macchina verso San Colombano, la nebbia dirada un poco e mi
consente di scoprire la sommità del Castello. Non so se sia un residuo di foschia o di
commozione a velarmi gli occhi. Sta di fatto che il rosso cupo delle mura si stempera
nell’ocra pallido del Palazzo Ducale e delle case di Urbino.
Marcello Sassi